CONDOMINIO – INFILTRAZIONI – RISARCIMENTO PER RIDOTTO UTILIZZO IMMOBILE

Le infiltrazioni da coperture del tetto di un condominio sono fenomeni frequenti che generano gravi disagi per gli abitanti degli alloggi sottostanti, i quali, spesso, per l’inerzia dell’amministratrore o per la contrarietà degli altri condomini, si trovano costretti a tutelarsi in sede giudiziaria per veder riconosciuto il loro diritto di far cessare ed eliminare le cause dell’infiltrazione. Tuttavia, talvolta, la semplice eliminazione della cause delle infiltrazioni non rappresenta l’integrale riparazione del danno, specialmente allorquando le infiltrazioni provocano l’inutilizzabilità dei locali interessati. Si parla in questi casi di ridotto godimento dell’immobile. A questo proposito, viene incontro a questo ulteriore diritto del proprietario dell’immobile, la Corte di Cassazione, Sezione 2 Civile, con sentenza 30 settembre 2025 n. 26450, con la quale si sancisce “che la compressione o la limitazione del diritto di proprietà di un immobile, che siano causate dall’altrui fatto dannoso – nella specie, infiltrazione di acqua proveniente da terrazze di copertura dell’edificio condominiale – sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivi la necessità di una spesa ripristinatoria (c.d. danno emergente) o di perdita dei frutti della cosa (c.d. lucro cessante), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento siano sopportate dal titolare con suo personale disagio o sacrificio.

Naturalmente grava sul proprietario della porzione esclusiva di proprietà l’onere di dimostrare sia la limitazione del diritto di proprietà sia la quantificazione del danno da lucro cessante subito.

Ulteriori chiarimenti su autovelox – Omologazione obbligatoria degli apparecchi diversa da approvazione

Corte di Cassazione Sezione 5 Penale Sentenza 14 marzo 2025 n. 10365

La recente pronuncia della sezione penale della Cassazione ha stabilito che la procedura di approvazione e quella di omologazione degli apparecchi di rilevazione della velocità in conformità al dettato normativo di cui all’art. 192 terzo comma del Reg. di esec. del Codice stradale (in attuazione dell’art. 45 co. 6 del medesimo codice, che espressamente distingue l’approvazione dall’omologazione). In particolare per “l’omologazione è richiesto un accertamento, anche mediante prove, da parte dell’Ispettorato Generale per la circolazione e la sicurezza stradale del ministero dei Lavori pubblici, che si avvale, ove necessario, del parere del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, con specifico riferimento alla rispondenza e alla efficacia dell’oggetto di cui si richiede l’omologazione alle prescrizioni stabilite dal Regolamento (art. 192 comma 2 cit.); analogamente, “omologazione” ed “approvazione” sono distinte anche in base al dato testuale degli artt. 142 comma 6 C.D.S. e 345 comma 2 del Regolamento” (cit. sentenza 10365/2025).

I giudici hanno potuto constatare che il “prototipo T-EXSPEED V 2.0 prodotto dalla società KR. Srl installato e utilizzato per la rilevazione della velocità, non risulta essere mai stato (n.d.r.: non solo omologato ma nemmeno) approvato, “rilevando come lo stesso sia composto da un “‘unità di ripresa” e da una distinta “unità di elaborazione” – quella specificamente e minuziosamente deputata al calcolo della velocità – e come la certificazione di conformità al prototipo, asseritamente depositato in quanto approvato, della produttrice KR. fosse comunque riferita soltanto all’unità di ripresa (delle immagini) e non a quella, evidentemente cruciale ed esiziale, della elaborazione” (cit. sentenza 10365/2025) della velocità.

In precedenza, anche il Consiglio di Stato, sentenza n. 5693/2008, si era espresso nel senso della distinzione tra la procedura di approvazione e quella di omologazione, come successivamente affermato anche dalla Cassazione Civile con l’ordinanza n. 10505 del 18 aprile 2024, la quale ha ulteriormente precisato che “non possono avere un’influenza sul piano interpretativo le circolari ministeriali , le quali sembrerebbero avallare una possibile equipollenza tra omologazione ed approvazione, basata, però, su un approccio che, per l’appunto, non trova supporto nelle suddette fonti primarie e che, in quanto tali, non possono derogate da fonti secondarie o da circolari di carattere amministrativo“. Testualmente la Corte di Cassazione dispone che: ” In tema di violazioni del codice della strada per superamento del limite di velocità, è illegittimo l’accertamento eseguito con apparecchio autovelox approvato ma non debitamente omologato“.

Si potrebbe azzardare e giungere alla conclusione che neppure nel caso di una rilevazione di un eccesso di velocità talmente evidente la violazione possa essere sanzionata.

Sinistro tra auto e animale – Cass. Civ. n. 7580/2025 – Responsabilità della Regione

In tema di scontro tra un veicolo e un animale la giurisprudenza è stata spesso altalenante, configurando la fattispecie ora sotto la disposizione dell’art. 2043 c.c., con onere della prova a carico del danneggiato, ora sotto quella dell’art. 2052 c.c., con onere a carico del proprietario dell’animale.

Fondamentale passaggio, nell’evoluzione giurisprudenziale, ormai consolidata, è stato proprio quello di individuare quale fosse il soggetto legittimato passivo ovvero responsabile. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto che la fauna selvatica sia di proprietà della Regione. Infatti, alle regioni la legge attribuisce il potere di “emanare norme relative alla gestione ed alla tutela della fauna selvatica” (art. 1, comma 3, l. 157/92): ed è principio antico ed indiscusso del diritto civile che l’attribuzione di qualsiasi potere comporta l’assunzione delle connesse responsabilità.

Pertanto la Regione, ha facoltà di sciogliersi dal vincolo di responsabilità soltanto dando la prova del caso fortuito, secondo un criterio di distribuzione del rischio che si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà degli animali, con la concorrente responsabilità per fatto degli stessi.

Permessi L. 104/1992 – Jogging compatibile con i premessi

Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di Appello di Perugia (25 ottobre 2023) si registra una tendenza della giurisprudenza, in tema di permessi retribuiti ex articolo 104, non uniforme e talvolta contrastante. In alcuni casi, infatti, si è preferita una linea rigida, in virtù del principio della buona fede e pertanto si è deciso che il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex articolo 33 della legge 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad un’altra attività, integrasse l’ipotesi dell’abuso di diritto. Tale condotta risulterebbe lesiva della buona fede, sottraendosi illegittimamente alla prestazione lavorativa. Peraltro, anche nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico vi sarebbe violazione dell’affidamento riposto nel dipendente integrando un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale.

Diversamente, in altre pronunce, è stato deciso che solo ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, che genera la responsabilità del dipendente. La recente pronuncia della Corte di Appello di Perugia si inserisce in questo filone giurisprudenziale, secondo la quale la condotta del dipendente che abbia utilizzato un numero non significativo di ore di permesso, rispetto al totale di quelle riconosciute, per svolgere attività che neppure indirettamente integrano gli estremi dell’assistenza al familiare disabile, come appunto nel caso del jogging esaminato dalla Corte territoriale, è rilevante sotto il profilo disciplinare, ma non è di una tale gravità da minacciare irreparabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Conclude la Corte, in questo caso, che il licenziamento è illegittimo.

Ciclista ubriaco: condannato per guida in stato di ebbrezza

Lo dispone la Corte di Appello di Lecce che condanna un uomo per il reato di cui agli artt. 81 cpv c.p., D.Lgs. n.
30 aprile 1992 n. 285, 186, comma 2, e 187, comma 1, eliminando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, comminata dal Tribunale di Lecce.

“La pronuncia, infatti, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, autorevolmente sostenuto dalle Sezioni Unite, secondo cui “il reato di guida in stato di ebbrezza ben può essere commesso attraverso la conduzione di una bicicletta, posto che anche tale mezzo è idoneo a interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale, ferma la inapplicabilità concreta delle sanzioni amministrative accessorie previste per tale reato, come, ad es., della sospensione della patente di guida, non praticabile nel caso in cui per la guida del mezzo non sia prevista abilitazione” (cfr. Sez. Un., n. 12316 del 30/01/2002).”La pronuncia, infatti, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, autorevolmente sostenuto dalle Sezioni Unite, secondo cui “il reato di guida in stato di ebbrezza ben può essere commesso attraverso la conduzione di una
bicicletta, posto che anche tale mezzo è idoneo a interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale, ferma la inapplicabilità concreta delle sanzioni amministrative accessorie previste per tale reato, come, ad es., della sospensione della patente di guida, non praticabile nel caso in cui per la guida del mezzo non sia prevista abilitazione” (cfr. Sez. Un., n. 12316 del 30/01/2002).

La Cassazione afferma il principio che l’abbagliamento dai raggi solari non rientra nelle ipotesi di caso fortuito e il conducente è tenuto alla massima cautela per potersi fermare in presenza di prevedibili ostacoli.

Il principio è affermato nella recente pronuncia della Suprema Corte – quarta sezione penale – con la quale non è stata riconosciuta l’ipotesi del caso fortuito e il conseguente esonero da responsabilità del soggetto agente, “trattandosi di un fenomeno naturale, la cui insorgenza è del tutto prevedibile in determinate circostanze“. Corte di Cassazione – Sezione 4 Penale – Sentenza, 1 febbraio 2023 n. 4155

CONDOMINIO – COMPENSI DELL’AMMINISTRATORE

CORTE APPELLO PALERMO – Sentenza n. 1792/2022 pubbl. il 02/11/2022

E’ illegittima la richiesta di pagamento del compenso da parte dell’amministratore di un condominio se questi non abbia, all’atto di accettazione dell’incarico, indicato, in modo specifico ed analitico, l’importo dovuto a titolo di compenso per la sua attività.

Così ha stabilito la Corte d’appello di Palermo, in una causa di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto da un amministratore di condominio.

La Corte argomenta l’illegittimità della richiesta partendo dal dato normativo, che non pare lasciare dubbi al collegio giudicante. Si sostiene, infatti, che “muovendo dalla natura fiduciaria che caratterizza il rapporto tra l’assemblea del condominio e il suo amministratore, la giurisprudenza ha da sempre individuato nel mandato la tipologia di contratto cui far riferimento per la regolamentazione del relativo rapporto …. Con la legge di riforma del condominio (L. n. 220/2012), tale orientamento è stato poi codificato nel novellato art. 1129, co. 15 c.c., a mente del quale “per quanto non disciplinato dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui alla sezione I del capo IX del titolo III del libro IV”, vale a dire le disposizioni di cui agli artt. 1703 e ss., in
tema di contratto di mandato
“.

“L’art. 1129 c.c., comma 14, così dispone: “l’amministratore, all’atto dell’accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l’importo dovuto a titolo di compenso per l’attività svolta“.

A giudizio della Corte la norma non lascia spazio ad interpretazioni ulteriori rispetto al dato strettamente letterale e ciò al fine di garantire la massima trasparenza ai condomini e a renderli edotti delle singole voci di cui si compone l’emolumento dell’organo gestorio al momento del conferimento del mandato.

INDENNITA’ DI ACCOMPAGNAMENTO: come ottenerla e quali condizioni occorrono.

L’indennità di accompagnamento è inquadrata nel sistema dell’assistenza agli invalidi civili ed è erogata dall’INPS.

Consiste in una prestazione economica in favore di soggetti mutilati o invalidi totali per i quali è stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore oppure l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita. E’ compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa, dipendente o autonoma, e con la titolarità di una patente speciale. L’indennità di accompagnamento è inoltre compatibile e cumulabile con l’indennità di comunicazione e l’indennità di accompagnamento per cieco assoluto purché siano state concesse per distinte minorazioni, ognuna relativa a differenti status di invalidità (soggetti pluriminorati). E’, invece, incompatibile con l’invalidità ottenute per causa di guerra, lavoro o servizio. Tuttavia è concessa la facoltà di scelta di una o dell’altra.

Per ottenerla, il soggetto interessato, che sia in possesso dei requisiti sanitari [ https://www.inps.it/prestazioni-servizi/indennita-di-accompagnamento-agli-invalidi-civili ], residente stabilmente in Italia, indipendentemente dal reddito, deve presentare una domanda all’INPS. Entro 30 gg l’Istituto previdenziale dovrebbe emettere il provvedimento.

Preliminarmente, deve avviare il processo di accertamento dello stato di invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità. L’interessato deve recarsi da un medico certificatore e chiedere il rilascio del certificato medico introduttivo che indichi i dati anagrafici, il codice fiscale, l’esatta natura delle patologie invalidanti e la relativa diagnosi. L’accertamento del possesso dei requisiti sanitari previsti dalla legge per il riconoscimento dell’invalidità civile, cecità civile, sordità, handicap e disabilità viene eseguito da una Commissione medico-legale presso le Aziende Sanitarie Locali, integrate con un medico INPS https://www.inps.it/prestazioni-servizi/accertamento-sanitario.

L’importo dell’assegno nel 2021 era di € 522,10

ESECUZIONE FORZATA – PRECETTO- Requisiti [Cassazione civile, 26 luglio 2022, n. 23343]

La Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata a risolvere un quesito posto dal debitore che sosteneva la violazione dell’art. 480, comma 2, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per non avere il Tribunale dichiarato la nullità del precetto benché privo dell’avvertimento indicato dalla citata disposizione.

Tale disposizione prevede che nel precetto debba essere inserito l’avvertimento (art. 480, comma 2, c.p.c.), concernente la possibilità di ricorrere alla procedura di sovraindebitamento.

Ritiene la Corte come la mancanza del detto avvertimento, in seno al precetto, non possa condurre ad alcuna invalidità dello stesso, trattandosi invece di mera irregolarità (come correttamente ritenuto dal primo giudice), per plurime ragioni.

Il nuovo periodo in questione, benché inserito in prosecuzione a quello originario (ove si commina la nullità dell’atto di precetto in ben specifiche ipotesi), non ribadisce espressamente la sanzione processuale anche per il caso della mancanza del detto avvertimento, sicché la littera legis non depone affatto per un’interpretazione nel senso propugnato dagli odierni ricorrenti.

Gli elementi formali del precetto, cui detta sanzione è collegata, sono prescritti allo scopo di consentire all’intimato l’individuazione inequivoca dell’obbligazione da adempiere e del titolo esecutivo azionato (v. Cass. n. 1928/2020), finalità che – come immediatamente intuibile e come meglio si dirà nelle pagine che seguono – è del tutto estranea alla ratio legis che ha ispirato la novellazione dell’art. 480, comma 2, c.p.c.

L’avvertimento di cui all’art. 480, comma 2, secondo periodo, c.p.c., non è infatti funzionale alla prevenzione di decadenze o altre conseguenze processuali negative in capo all’intimato, ma ha una ratio precipuamente “promozionale” (benché, in verità, abbastanza eccentrica, per essere contenuta in una disposizione normativa); in altre parole, la ratio legis della novella, nella sostanza, è quella di incentivare o stimolare il ricorso ad una delle procedure di cui agli artt. 6 ss. della citata legge n. 3/2012, che – all’epoca della novella stessa (e a differenza dell’attualità) – non erano molto in voga nella prassi giudiziaria. Costituisce riprova di ciò la circostanza che la domanda di accesso del debitore ad una procedura di “composizione da crisi di sovraindebitamento” non è soggetta ad alcun termine di decadenza, rispetto alle scansioni di una procedura esecutiva “preannunciata” da un precetto eventualmente monco dell’avvertimento in parola.

Può conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “L’omissione dell’avvertimento di cui all’art. 480, comma 2, secondo periodo c.p.c. (introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), del d.l. n. 83 del 2015, conv. in legge n. 132 del 2015) – che prescrive che il creditore precettante debba informare il debitore intimato dell’opportunità di proporre una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla legge n. 3 del 2012 – costituisce mera irregolarità e non determina la nullità del precetto, giacché la nuova disposizione non commina espressamente tale sanzione, né essa è altrimenti desumibile, la novella non essendo posta a presidio della posizione processuale del debitore, bensì avendo soltanto l’obiettivo di promuovere o stimolare un più massiccio ricorso a dette nuove procedure

LESIONI – INFORTUNIO PORTE SCORREVOLI – ENTRARE IN UN SUPERMERCATO NON SEMPRE GENERA OBBLIGHI CONTRATTUALI – CASSAZIONE CIVILE N. 16224/ 2022

Una sentenza emessa dal Tribunale di Reggio Emilia, confermata dalla Corte di Appello di Bologna e dalla Corte di Cassazione, rigettava la domanda proposta da una cliente nei confronti della xxxx s.r.l., avente ad oggetto il risarcimento del danno conseguente all’infortunio occorsole il 19 ottobre 1999, allorché, mentre usciva dal locale del supermercato gestito dalla convenuta dopo aver fatto la spesa, era stata violentemente colpita dalle porte a scorrimento automatico, chiusesi all’improvviso, riportando lesioni
personali.

L’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dalla società convenuta, unita alla argomentazione che la responsabilità non avesse natura contrattuale (comportante l’applicazione del termine di prescrizione decennale, non ancora decorso), quale responsabilità scaturente dalla violazione di obblighi derivanti dal contratto di vendita stipulato tra la società gestrice del supermercato e la sua cliente, inducedvano il Tribunale a ritenere che la domanda di risarcimento non potesse essere accolta.

La Corte ha evidenziato che l’interesse del cliente di un supermercato a conservare la propria integrità fisica dinanzi al fatto dannoso che può verificarsi all’interno dei locali dello stesso, è un interesse che riceve tutela nella vita di relazione a prescindere dall’acquisto delle merci ivi poste in vendita, e la cui lesione costituisce danno ingiusto risarcibile a titolo di responsabilità extracontrattuale.
Precisamente, allorché il danno sia cagionato dalle cose che si trovano all’interno dei locali del supermercato, si integra, nel concorso di tutti gli altri elementi costitutivi, l’ipotesi speciale di responsabilità extracontrattuale di cui all’art.2051 c.c., con conseguente obbligo risarcitorio in capo al custode delle cose medesime.