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Vaccino-obbligatorietà per il lavoratore

Mi è stato chiesto un parere legale, da parte di lavoratori (dipendenti pubblici) non vaccinati, soprattutto per evitare di dover sostenere spese continue per i tamponi per accedere ai luoghi di lavoro, per avere una soluzione diversa dalla vaccinazione.

Alla domanda: sapreste consigliarmi come potermi muovere al meglio in questa situazione, la mia risposta, non apprezzata, è la vaccinazione. Non volendo entrare nel merito delle ragioni di chi non si vuole vaccinare, il mio consiglio è fondato, come dovrebbe essere quello di un professionista, sul principio che un eventuale contenzioso con l’amministrazione, datrice di lavoro, vedrebbe il lavoratore soccombente.

L’orientamento della giurisprudenza, formatasi in questi ultimi mesi nei Tribunali di merito, tra cui Roma, Modena, Verona, nonché la giurisprudenza amministrativa (v. Consiglio di Stato), è di non accogliere i ricorsi dei lavoratori, specialmente in ambito sanitario, in ragione della tipologia delle mansioni espletate e della specificità del contesto lavorativo e dell’utenza seguita o servita, promossi contro l’assolvimento dell’obbligo vaccinale .

Il rifiuto della somministrazione, non giustificato da cause di esenzione e da specifiche condizioni cliniche, costituisce impedimento di carattere oggettivo all’espletamento della prestazione lavorativa.

Per queste ragioni, per non affollare gli uffici giudiziari con ricorsi che difficilmente avrebbero probabilità di successo, non per una posizione ideologica, il mio parere è e rimane quello di rispettare l’obbligo vaccinale laddove, per la categoria di appartenenza, sia stata disposta l’obbligatorietà.

LOCAZIONI COMMERCIALI – COVID – BUONA FEDE CONTRATTUALE

Tribunale Roma Sez. VI Ord., 27/08/2020

Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza in epigrafe, ha elevato la crisi pandemica a sopravvenienza fattuale che incide nella sfera giuridica dei contraenti tale che l’equilibrio del sinallagma originario deve essere ripristinato in modo che nessuna delle parti contrattuali possa avvantaggiarsi rispetto all’altra. Di seguito quanto disposto dal giudice:

“La crisi economica dipesa dalla pandemia Covid-19 e la chiusura forzata delle attività commerciali – ed in particolare di quelle legate al settore della ristorazione – devono qualificarsi quale sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale; invero, nel caso delle locazioni commerciali il contratto è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva, e segnatamente nel caso di specie per lo svolgimento dell’attività di ristorazione. Pertanto, pur in mancanza di clausole di rinegoziazione, i contratti a lungo termine, in applicazione dell’antico brocardo “rebus sic stantibus”, devono continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio. Al contrario, qualora si ravvisi una sproporzione nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi dell’esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.), che ha la funzione di rendere flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore.”

Protezione privacy – minori – social networks

Tribunale Rieti, Ord., 07-03-2019

La tutela della vita privata e dell’immagine dei minori ha trovato tradizionalmente cittadinanza, nel nostro ordinamento, nell’art. 10 c.c.(tutela dell’immagine); negli artt. 4,7 8 e 145 d.lgs 196/2003(tutela della riservatezza dei dati personali) nonché nella legge di ratifica n. 176/1991 della Convenzione di New York del 20-11-1989, (“1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”).

La diffusione delle immagini legata allo sviluppo di internet e al mondo dei social, ha reso necessario un adattamento normativo, più adeguato alle nuove realtà digitali. Allo scopo è intervenuto l’art. 38 del regolamento UE n. 679/2016 (entrato in vigore nel nostro ordinamento nel 2018) che dispone che: “i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali…”; ulteriormente, l’ art. 8 del regolamento – Condizioni applicabili al consenso dei minori in relazione ai servizi della società dell’informazione – prevede che “… il consenso, per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni.”

La pronuncia del Tribunale di Rieti, indicata in epigrafe, ha ritenuto legittima, in caso di genitori separati, la richiesta di tutela d’urgenza, invocata da uno dei genitori, e per questo ha disposto la immediata rimozione di immagini, informazioni, dati relativi ai minori inseriti su social networks, comunque denominati ed inibito la diffusione in social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo ai minori in assenza del consenso di entrambi i genitori.

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA – PROTEZIONE DATI

Corte di Appello di Venezia – sentenza 27 luglio 2020 n. 258

Interessante intreccio tra due questioni rilevanti in ambito lavorativo che riguardano la divulgazione di informazioni-notizie attinenti all’ambito di lavoro e la giusta causa di licenziamento.

Il fatto riguarda la divulgazione, da parte di una dipendente, di un video postato in una chat privata tra colleghi di un punto vendita. Alla dipendente era stato contestato di avere inviato, a tutti dipendenti della società, di tutti i punti vendita, un filmato effettuato all’interno dei locali del negozio in cui era ripreso lo Store manager del punto vendita, “mentre usciva dal bagno in mutande con una bottiglia di urine in mano”.

La dipendente, a seguito della divulgazione del video era stata licenziata per giusta causa, consistente nell’aver posto in essere una condotta denigratoria verso la società o la clientela.

I giudici del lavoro, del Tribunale prima e della Corte poi, hanno affrontato sia la questione della A) violazione della libertà e segretezza della corrispondenza sia della giusta causa di licenziamento, nella fattispecie concreta.

A) Sotto il primo profilo, ancorché la giurisprudenza non sia ancora unanime, la Corte d’Appello di Venezia giungeva alla conclusione che, seppur privata, la chat non era stata “violata da soggetti estranei. Infatti si trattava di gruppo nominativo di iscritti – in via approssimativa almeno una quindicina – senza che in alcun modo sia stato allegato che la comunicazione al call center sia avvenuta ad opera di soggetti estranei che abusivamente abbiano avuto accesso alla chat. È stato agevole concludere, per il giudice, che la comunicazione all’esterno sia avvenuta ad opera di uno dei partecipanti con l’evidente intento di delegittimare, non uno di essi, ma il protagonista del video, ossia il responsabile del negozio. Pertanto, la prova del video era perfettamente utilizzabile.

B) Tuttavia, nonostante l’utilizzabilità della prova filmata, la Corte non ha ritenuto la violazione discpilinare talmente grave da legittimare il licenziamento. La Corte ha ritenuto ” la valenza disciplinare del fatto addebitato tuttavia” ha escluso “che la condotta contestata assuma tale gravità da giustificare il licenziamento”. Ancora la Corte di Venezia ha affermato che fermo restando ” il disvalore del comportamento addebitato, va messo in evidenza che si è trattato di condotta avente carattere episodico, che ha interessato un numero limitato di soggetti presso i quali il video è stato diffuso, per cui tale capacità lesiva si è mantenuta in limiti tali che la sanzione disciplinare adottata risulta del tutto sproporzionata”. Per tale motivo ha ritenuto più congruo, tenuto conto della dimensione aziendale e della relativa anzianità lavorativa della dipendente (assunta a tempo indeterminato dal gennaio 2014 e licenziata il 2 marzo 2018, quindi, poco più di quattro anni) un’indennità pari a 17 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

FAMIGLIA – FIGLIO MAGGIORENNE – MANTENIMENTO – LIMITI

Ordinanza n. 17183 – 14 agosto 2020 – CORTE DI CASSAZIONE

La Prima Sezione Civile della Suprema Corte ha, ancora una volta, precisato i limiti entro cui il figlio maggiorenne “convivente” può ottenere il mantenimento a carico dei propri genitori.

I giudici di legittimità hanno interpretato l’art. 337 -septies, co. 7, c.c., nel senso che, ultimato il prescelto percorso formativo (scuola secondaria, facoltà universitaria, corso di formazione professionale), il maggiorenne debba adoperarsi per rendersi indipendente economicamente. A tale scopo, egli è tenuto ad impegnarsi attivamente per trovare un’occupazione, tenendo conto delle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, finanche a modificare le proprie aspirazioni.

A tale conseguenza si giunge tenendo in considerazione il principio di autoresponsabilità che informa l’ordinamento giuridico e scandisce i doveri del soggetto maggiore d’età: costui, dunque, non può ostinarsi e indugiare oltre ragionevoli limiti che finirebbero per trasformare l’assistenza economica ad infinitum in forme di vero parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani. Deve peraltro operarsi un contemperamento, inspirato al principio di compatibilità, delle inclinazioni e aspirazioni del figlio con quelle che sono le condizioni economiche dei genitori.

Divorzio -Assegno di mantenimento -Famiglia di fatto instaurata dal beneficiario -Perdita del diritto all’assegno divorzile

Prima Sezione Civile, ordinanza interlocutoria 17 dicembre 2020, n. 28995, Pres. F.A. Genovese, Est. L. Scalia

La Prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della S.C. di una questione di particolare importanza ovvero se l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, faccia venire meno in maniera automatica il diritto all’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, ovvero al contrario se ne possa affermare la perduranza, valorizzando il contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, nel diverso contesto sociale di riferimento.

Licenziamento – È legittimo sostituire le ferie con la malattia per evitare il licenziamento

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 10-07-2020) 14-09-2020, n. 19062

“Secondo il più recente indirizzo di legittimità, dovendo ritenersi prevalente l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, gravando quindi sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare – ove sia stato investito di tale richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza dei periodo di comporto.”

COVID – SCUOLA – LAVORO – MINORENNI INFRAQUATTORDICENNI

Comincia la scuola e le famiglie fanno i conti con permessi e congedi per la malattia dei figli. Quest’anno si aggiungono, al resto, tutte le conseguenze legate alla pandemia e quarantena. In soccorso, ma soltanto fino al 31.12.2020, vengono le disposizioni previste dal decreto DL 08/09/2020, n. 111, che di seguito viene trascritto:

Art. 5.  Lavoro agile e congedo straordinario per i genitori durante il periodo di quarantena obbligatoria del figlio convivente per contatti scolastici

1.  Un genitore lavoratore dipendente può svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
2.  Nelle sole ipotesi in cui la prestazione lavorativa non possa essere svolta in modalità agile e comunque in alternativa alla misura di cui al comma 1, uno dei genitori, alternativamente all’altro, può astenersi dal lavoro per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio, minore di anni quattordici, disposta dal Dipartimento di prevenzione della ASL territorialmente competente a seguito di contatto verificatosi all’interno del plesso scolastico.
3.  Per i periodi di congedo fruiti ai sensi del comma 2 è riconosciuta, in luogo della retribuzione e ai sensi del comma 6, un’indennità pari al 50 per cento della retribuzione stessa, calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, a eccezione del comma 2 del medesimo articolo. I suddetti periodi sono coperti da contribuzione figurativa.
4.  Per i giorni in cui un genitore fruisce di una delle misure di cui ai commi 1 o 2, ovvero svolge anche ad altro titolo l’attività di lavoro in modalità agile o comunque non svolge alcuna attività lavorativa, l’altro genitore non può chiedere di fruire di alcuna delle predette misure.
5.  Il beneficio di cui al presente articolo può essere riconosciuto, ai sensi del comma 6, per periodi in ogni caso compresi entro il 31 dicembre 2020.

Si è posto qualche problema interpretativo nelle ipotesi di coniugi separati e di compimento del 14° anno nel periodo della quarantena.

Nella prima ipotesi, potrebbe rilevare l’affidamento esclusivo concordato tra i coniugi ovvero disposto dal Giudice oppure il collocamento preferenziale in caso di affido condiviso. Ove non sia stato previsto o disposto il collocamento preferenziale presso uno dei genitori, il diritto dovrebbe spettare ad entrambi, quanto meno nel periodo in cui ognuno di essi ha la custodia del figlio.

L’altro problema interpretativo, per motivi di opportunità e di tutela di diritti costituzionalmente garantiti, dovrebbe risolversi nel senso di proseguire con il regime vigente al momento in cui insorge la malattia e quindi inzia la quarantena, consentendo al genitore di continuare a beneficiare del congedo.

INFORTUNIO SUL LAVORO In itinere – permesso – ricorre

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 06-02-2020) 08-09-2020, n. 18659

La Suprema Corte non ha condiviso l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte di Appello di Venezia secondo cui la fruizione di un permesso di lavoro per motivi personali interromperebbe ex se il nesso rispetto all’attività lavorativa, con conseguente non indennizzabilità dell’evento infortunistico verificatosi nel percorso normale per rientrare al lavoro, atteso che il permesso costituisce una fattispecie di sospensione dell’attività lavorativa nell’interesse del lavoratore che ontologicamente non è differente dalle pause o dai riposi, differenziandosi da questi ultimi soltanto per il suo carattere occasionale ed eventuale a fronte del connotato di periodicità e prevedibilità che è tipico degli altri, e non potendo logicamente sostenersi che il lavoratore che si allontani dall’azienda e/o vi faccia ritorno in relazione alla necessità di fruire del riposo giornaliero non sia tutelato “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro”, giusta la lettera del T.U. n. 1124 del 1965, cit., art. 2, comma 3.

Al contrario, la Cassazione ha ricordato che il “T.U. n. 1124 del 1965, art. 2, comma 3, nel testo applicabile ratione temporis risultante dalla modifica apportata dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 12, prevede, per quanto qui rileva, che “salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate, l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro“, precisando che “l’interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti” e che “l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato, purchè necessitato”, mentre “restano (…) esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni“, nonchè quelli avvenuti nell’ipotesi che il conducente sia “sprovvisto della prescritta abilitazione di guida“; interpretando l’anzidetta disposizione, questa Corte ha avuto modo di chiarire che essa amplia la tutela assicurativa a qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso da casa al luogo di lavoro, escludendo qualsiasi rilevanza all’entità del rischio o alla tipologia della specifica attività lavorativa cui l’infortunato sia addetto e tutelando piuttosto il rischio generico (connesso al compimento del c.d. percorso normale tra abitazione e luogo di lavoro) cui soggiace qualsiasi persona che lavori, restando per conseguenza confinato il c.d. rischio elettivo a tutto ciò che sia dovuto piuttosto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella legata al c.d. percorso normale, ponendo così in essere una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro-rischio ed evento “.

Danni causati da specie protette rientranti nel patrimonio indisponibile dello Stato e responsabilità della Regione

Importante arresto della Cass. Sez. III Civ. 20 aprile 2020, n. 7969 in materia di danni causati da specie protette rientranti nel patrimonio indisponibile dello Stato, specie per chi abita in zone di campagna adiacenti a centri abitati.

Ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette che rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato, la Suprema Corte ha ritenuto che si debba applicare il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, quale ente a cui spetta in materia la funzione normativa, nonché le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte da altri enti.
La decisione si innesta in un panorama eccessivamente incerto avvertendosi l’esigenza di una  uniformità di applicazione del diritto civile su tutto il territorio nazionale.
“L’affermazione per cui l’ente “legittimato passivo” in relazione all’azione risarcitoria per i danni causati dalla fauna selvatica protetta è esclusivamente quello cui sarebbe spettato in concreto porre in essere la condotta omessa causativa del danno ha, del resto, portato a ricostruzioni non sempre coincidenti delle medesime legislazioni regionali, ed a sostenere talvolta e/o a negare altre volte (anche in relazione alla medesima regione) che avesse rilievo una determinata delega di funzioni amministrative e/o che la stessa potesse dirsi “concretamente attuata”, ovvero che una determinata condotta omessa spettasse ad un ente o ad un altro, e/o fosse o meno esigibile dall’uno o dall’altro. Ciò senza contare che talvolta la stessa responsabilità delle Regioni e delle Province è stata considerata concorrente ed altre volte esclusiva.”

La Corte ha pertanto deciso che “ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della L. n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente al quale spetta in materia la funzione normativa, nonchè le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni (e che dunque rappresenta l’ente che “si serve”, in senso pubblicistico, del patrimonio faunistico protetto), al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; la Regione potrà eventualmente rivalersi (anche chiamandoli in causa nel giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli altri enti ai quali sarebbe spettato di porre in essere in concreto le misure che avrebbero dovuto impedire il danno, in quanto a tanto delegati, ovvero trattandosi di competenze di loro diretta titolarità.